GLORIA IN EXCELSIS MACHINA (IL CONFINE) 

(Max - 1972)


E’ l’inno della decadenza umana. Senza sentimenti, l’uomo è sballottato ai confini delle galassie, ormai prigioniero di una gabbia che ha costruito con le sue stesse mani, una gabbia che non riuscirà più a demolire… La Macchina comanda l’Uomo, che ha dimenticato l’essenza della sua vita e precipita verso l’estinzione.

 

"Navi di luce che solcano il cielo,

vascelli fantasma tra le nebbie di Andromeda.

Solitario universo di mondi sbagliati

Padroni assoluti del nulla e del tutto.

Fabbricante di sogni tenuti celati

Da una coltre sospesa di nuda follia.

Hai ridotto il tuo nucleo

a ideali intangibili,

le spirali del tempo attendono il giorno

in cui inghiottiranno le tue ultime ore.

E ora osi lo sguardo verso un cielo non tuo…

 


AMORE FRAGILE (da "pensieri nel buio")

 Max -agosto 1973


Ancora il tema del primo amore, e di quando inesorabilmente poi sempre finisce. Una storia che sembra comune e scontata, ma che è drammatica nella sua essenza. Quanto mai vera, come parentesi di vita vissuta che ha lasciato il segno dentro ognuno di noi…

 

Ti ricordi i nostri primi sguardi,

I brevi primi incontri,

con l’estate scritta in faccia e l’inverno in mano?

Ti ricordi quante volte ti ho aspettata al buio,

e quante volte tu non c’eri?

Tutte le volte la tristezza che cresceva dentro me…

E le frasi ingenue e calde

sul portone sotto casa tua,

il letto in cui sei stata mia.

Quel tuo sguardo un po’ impaurito,

la maglietta e il reggiseno che gettavi lì sulla poltrona,

con tutto il resto…

Qui nel buio adesso le tue mani calde,

le mie attenzioni, le sensazioni,

le delusioni e i "che dirà la gente?"

Si è fatto tardi questa sera, è troppo tardi,

"non mi guardare, mi vergogno…

Dio mio che fretta, ti prego, no,

stasera basta".

E ti buttavi per le scale un po’ accaldata,

e quasi sempre spettinata.

Io ti guardavo e poi,

ti amavo un po’ di più…

Amore fragile.

 


UN POVERO CRISTO (Ugo 1973)


E’ un pezzo classico, una ballata a tempo di walzer sullo stile dei pezzi di De Andrè, autore e poeta Vate che ha in parte influito sui brani scritti da Ugo e Max, come pure, per altri versi, lo ha fatto Guccini. Uno degli anziani abitanti del paese, muore. Viveva in solitudine, qualcuno lo conosceva, nessuno lo rimpiangerà, nessuno gli porterà fiori. La società dell’egoismo e dell’ipocrisia andrà avanti immutata. Senza di lui.

 

" Ecco che se ne è andato anche lui, poveraccio.

È morto proprio stanotte, in un letto di quell’ospedale,

ha lasciato un lontano parente,

tre oche spennate, un gatto e un maiale.

Nella vecchia bicocca cadente,

una frusta poltrona, un bicchiere di vino

e una foto oramai ingiallita:

chissà? Forse un vecchio cugino…

I suoi mille e mille ricordi

Che ha portato con sé nella tomba

Riecheggiano tra quelle pareti

rischiarati dalla triste penombra.

E la polvere avvolge dovunque,

ricoprendo una rosa di maggio,

lo specchio, il tabacco e la pipa.

Ma son pochi al suo ultimo viaggio.

Poi lo adagiano, giù, nella fossa

e gli gettano in faccia la terra,

gli danno l’estremo saluto,

poi le zolle gli copron le ossa.

"Eh, peccato!...Era un vero brav’uomo"

"non aveva mai fatto del male…"

"era proprio un povero cristo…"

"Beh… si… peccato…"

E chi s’è visto s’è visto!


 


IL NARRATORE DELLE STORIE DEGLI INFERI 

(Ugo- primavera 1973)


Come in un girone d’inferno dantesco, a parlare sono i drogati. La consapevolezza della volontà di sfuggire, nel quotidiano, dalla realtà e forse dallo stress e dai problemi della vita reale, comportano qui una sorta di lamento angoscioso. La colpa è quella di non aver voluto "assuefarsi" al modo di vivere di un mondo che comporta gli assurdi ideali della violenza, della sopraffazione, della arrembante scalata alle classifiche sociali dove solo si tende ad umiliare il prossimo e ad eliminarlo in qualche modo al solo scopo di "emergere". In questa allegoria, la figura del "Narratore" è quella del benpensante, l’uomo probo, il "giusto" latore di facili sermoni che non accetta quello che non condivide, ma che vive nel mondo che loro sfuggono, da perfetto ingranaggio del sistema come arbitro fasullo di una esistenza drammatica, nella quale anche lui, come il personaggio del "Dannato", è coinvolto, verso un destino comunque aleatorio. Alla fine, infatti, su tutti si erge la "Entità", ovvero Colui che con pieno diritto di giudicare (ognuno ci veda il Dio che vuole…) sta guardando la tragedia incombente, che giungerà dalla stessa natura umana.

 

(Narratore)

Piloti di Navi di Oblio,

ventenni canuti, vegliardi.

Perché navigate in silenzio

Nello spazio di luci e di suoni?

(Dannato)

Rifiuti del tempo rigettati in un giorno,

siamo soli in un viaggio che non ha ritorno

e ci illudiamo ogni tanto che sogno e reale,

siano unica ombra nei silenzi di un viale.

Così, avvolti nel nostro torpore,

scordiamo ogni volta cosa sia l’amore.

(Narratore)

Nello spazio infinito la Luce

Vi bagna e ristora le membra.

Riposa la notte, lenisce il dolore…

Ma uccide le madri e disperde le genti:

badate, più avanti il Nulla vi attende!

(Dannato)

La terra ha donato un tempo al Mondo la vita,

ma l’uomo da tempo gliela ha restituita

dimentico in tutto fuorché dei pensieri

che lo fanno sovrano dei suoi desideri.

Non possiamo sentire, stiamo andando lontano,

ci trascina la Polvere, su palmi di mano…

(Narratore)

Badate! Per voi il cielo è sempre più scuro

Non conosce l’età, né presente o futuro!

(Dannato)

Il colore svanisce, per noi, poco a poco,

e vissuta in un’ora è una vita, Per gioco…

(Entità)

Mentre nel tuo nome d’Uomo

dita di Meccano montavano l’Apocalisse,

tu procedevi

sulla corsia di sorpasso…

 


IL BIVIO (Max – giugno 1972)


Brano autobiografico e molto sentito dall’autore, si conforma come l’esternazione di una intricata sequenza di sentimenti, nel narrare di una ragazza che è attirata dalle cose di un mondo al di fuori del vivere quotidiano e dalla curiosità di viverlo crescendo forse più in fretta di quanto dovrebbe. Perciò come spesso anche oggi accade, perfino in modo più esasperato e a volte cruento, tende ad atteggiarsi a "donna" più grande e matura, sulla scia di qualche amica che talvolta mal consiglia. Il brano, in sostanza è l’analisi del mondo di una giovane adolescente e dei suoi propositi, mentre è combattuta tra un po’ di invidia per le chiacchiere delle "amiche" (che rappresentano qui, anche se in forma astratta, le tentazioni della cattiva strada che finiscono comunque poi per distoglierla e forgiarne in modo diverso il carattere) da una parte, e il suo ragazzo come lei adolescente (che rappresenta la stabilità, l’evolversi naturale delle cose, che cerca di tenerla accanto a sé per vivere insieme la condivisione delle scoperte di nuove emozioni) dall’altra. E’ un testo molto impegnato ed un poco ermetico, che potrebbe non piacere al primo ascolto superficiale, ma che anche musicalmente contiene una carica emotiva piuttosto marcata.

 


Mia giovane amica, sei giunta ad un bivio,

Non sai se continuare o farmi soffrire,

ma bada che il tempo conserva i ricordi,

che presto o tardi tu dovrai ascoltare.

Legare le ore tra un’alba e un tramonto

Sfumati su un mare di mille sospiri,

e passare le notti al di sopra del cielo,

ricordi svaniti nella nebbia d’inverno.

Ma c’è freddo. Tanto freddo…

Mia giovane amica, ferma il tuo passo

Sul ciglio dell’antro in cui stai per cadere,

l’invidia s’accinge a colpire di nuovo

fermati in tempo, o sarà tropo tardi.

E poi svegliarsi alba da infiniti tramonti,

dipinti su un viale che è un vicolo cieco,

finché le stelle non grondino fango

e finché da fango non nascano stelle.

Mia giovane amica, ti sei già fatta donna

Dietro il miraggio di mille follie,

ma non illuderti, angelo mio,

è così triste volare da soli…

E di nuovo tornare ad avere il suo corpo,

posare le mani sul suo seno acerbo,

lasciare che il fuoco divori le membra

fin quando il mondo diventa lontano.

Ma c’è freddo. Tanto freddo…

Mia giovane amica non puoi ricordare,

hanno deciso di avere la tua mente,

ed ora che hai scelto la tua nuova strada

sei certa che questa sia poi quella giusta?

Fu gioia di un attimo, due occhi nel buio,

la pioggia che cade ora bagna anche l’anima.

Fu paura di un attimo, tanto amore negli occhi,

la pioggia che cade

ora umilia anche il pianto.


 

RITORNO ALLE ORIGINI (Max, marzo 1972)


In questo pezzo drammatico c’è tutta la sostanza della tragedia dell’estinzione. Però c’è anche la speranza/certezza che Madre Natura compirà il suo ciclo di riordino facendo ripartire da capo il microcosmo del genere umano. Si contempla qui, infatti, il quadro di una guerra atomica di sterminio globale (tema molto attuale all’epoca della stesura del brano) e dell’annientamento dell’uomo, che sarà ridotto ad essere un animale sperduto e spaventato quando si ritroverà ad essere ricondotto all’età della pietra, ai primordi da dove dovrà ricominciare a costruire un mondo migliore. Un testo molto lineare, forse ingenuo e un po’ retorico, non eccelso ma di pregevole contenuto e dalla musica semplice ma orecchiabile. E’ stato uno dei primissimi brani proposti e suonati in pubblico dal gruppo, come musica propria durante le serate di covers, insieme con "Amore fragile".

 

Grigio mattino tra prismi di vetro,

Cristalli di ghiaccio protesi nel cielo.

Apri la finestra, Uomo,

e guarda il tuo mondo che muore!

Dall’apice della tua civiltà

Ascolta il lamento della Natura,

risveglia il tuo tempo lontano,

i giorni del verde e dell’acqua.

Silenzio tra i prismi di vetro,

silenzio tra i cubi d’acciaio.

La piccola fiamma diventa più chiara,

un abisso di luce che tutto travolge!

Poi la notte più nera avvolge la Terra…

Uomo, sei solo tra i campi sbiaditi.

Uomo, sei solo sotto un cielo diverso.

Il buio è profondo e ti incute un timore

che i recessi del tempo non sanno spiegare.

Cerchi qualcosa scomparso da poco

tra le rovine stagnanti della tua civilità.

Rivedi un cielo che non hai mai visto,

ti senti affamato e afferri la clava…

Il tempo volta una pagina ancora,

dopo la notte ritorna l’aurora.

Dopo la notte, l’aurora.

 


OUVERTURE (FaB – 2014)


Dopo tre anni di collaborazione con Utopia239, ancora nessun pezzo scritto da Fabrizio trovava posto nella rivisitazione del lavoro fatto negli anni 70 da Max e Ugo contenuto in questo CD. Così si è deciso di fare un piccolo strappo alla regola, che avrebbe voluto che "I Giorni dell’Utopia" fosse meramente la digitalizzazione di soli brani originali di quei tempi. Dando una importante impronta di POP progressive Fabrizio ha così composto specificamente per il CD questa "apertura", fatta esclusivamente da suoni di tastiere elettroniche e che contiene già quasi tutta l’essenza dei suoni più sfruttati all’epoca: Synts alla "Vangelis", mellotron, corali classicheggianti, colori di Hammond e Leslie… Atmosfere senza tempo per introdurre all’ascolto di brani che vorremmo fossero davvero… "senza tempo"!

 


LA DANZA DELLE LUCCIOLE (Enrico 2014)


Stesso discorso di "OUVERTURE", anche questo brano delicato e di atmosfera è stato composto espressamente per il CD dal chitarrista Enrico Barbano, sovrapponendo più tracce di chitarra con vari effetti. Il "tappeto" del pezzo è stato poi arricchito da Fabrizio in fase di registrazione, con qualche ulteriore suggestivo tocco ma senza cambiarne l’essenza.

 

HO UDITO LE MEGATTERE CANTARE (Max -1977)

Nel periodo successivo allo scioglimento della band, Max si unì ad altriappassionati del genere pop-rock melodico (detto "progressive") che facevano musica nelle solite sale da ballo e discoteche, sulla scia di veri talenti nostrani quali Orme, PFM, New Trolls, BMS., Osanna e molti altri che stavano arricchendo il panorama musicale italiano con brani di grande carisma e di tutto rispetto, perfino a confronto con il mondo musicale anglosassone che poteva vantare gruppi del calibro di Pink Floyd, Deep Purple, Uriah Heep, Genesis, Led Zeppelin, Jetho Tull, etc.. Fondò quindi, con altri tre musicisti caresanesi (a Caresana, un paese tra Vercelli e Casale Monferrato) un nuovo gruppo: MITO. I componenti della band non erano né autori né compositori, e nemmeno musicisti professionisti, ma avevano un enorme capacità di amalgama tra di loro, e il pregio di suonare discretamente bene le covers di brani di ogni genere pop-rock, sia italiano (Pooh, Orme, PFM, N.T.) che straniero (Uriah Heep, Deep Purple, Pink Floyd). La voce solista di Max (che suonava chitarra ritmica, chitarra 12 corde e sintetizzatore Davoli) era inoltre grandemente supportata dalle capacità corali di Natalino Delrosso (vero "mostro" di batteria e percussioni, che con la sua Ludwig Black Panther nera era quasi incontenibile perfino nelle prove!), Franco Cerruti (basso) e Paolo Cattaneo (tastiere e orchestra elettronica). Chiudeva il cerchio il bravissimo Davide Indalezio (chitarra solista) che stava studiando chitarra classica ma amava profondersi in assoli, anche tematici, di grande qualità sonora. Max propose al gruppo MITO di introdurre in repertorio alcuni dei suoi vecchi brani e la cosa piacque talmente che proprio in quel periodo ci furono gli arrangiamenti e l’introduzione delle sonorità che sono presenti oggi in molti brani de "I Giorni dell’Utopia". In questo periodo, frutto della collaborazione tra Max, Paolo e Franco, nacque il brano strumentale "MITOLOGIA" (si era deciso che ogni nuovo brano avrebbe contenuto nel titolo la parola MITO!...), insieme a "MITOMANIA" che però non venne mai ultimato. Proprio MITOLOGIA, invece, rivisitata in studio con alcune nuove sonorità, è diventata "Ho udito le Magattere cantare" che fa parte del CD. Il brano è una lunga "suite" monotematica di musica elettronica (un po’ sulla falsariga di One of These Days dei Pink Floyd) ma ricca di ritmica e di spunti ancora molto attuali.

 


UNA BORGATA (Max – agosto 1972)

Iniziato con molta “rabbia” e l’intenzione di scrivere un brano decisamente e soltanto cattivo, questo pezzo scritto da Max e poi dallo stesso musicato con la collaborazione di Ugo, nonché di Fabrizio in sede di registrazione del CD, si è pian piano evoluto sino a narrare una vera a propria storia, nuovamente autobiografica, degli anni giovanili vissuti a Lignana. Dentro ci sono, comunque, raffiche di sentimenti a volte contrastanti, ma soprattutto sembra voglia emergere, su tutto, un grido di angoscia per una condizione di grande solitudine interiore, che riverbera sicuramente sulla grande solitudine affettiva di quel periodo.



Un vecchio paese tra i fiori e le spine,
dei muri che offrono la faccia al vento,
un mulino, una chiesa, la vecchia osteria,
ricordi che il tempo si porterà via…
Ma il tempo, invece, ha portato un bambino
che aveva il difetto di continuare a sognare
le cose che il mondo gli aveva rubato
lasciandogli in cambio solo voglia d’amare.
E mentre inseguivo gli attimi di quelle ore di novembre
da bimbo mi ritrovai uomo, senza sapere niente.
E così vorrei andarmene da questa pianura
vorrei andarmene ora, ora che il grano matura.
Vorrei poter lasciare queste vecchie case
prima che il tempo se le porti via,
e vedere ancora crescere i fiori
anche tra i sassi della mia via.
E poi vorrei nascondere la mia faccia all’aria,
vorrei nasconderla agli occhi di tutti
perché dicono sia una faccia che parla,
e fa capire a tutta la gente
quanto la loro determinazione
confini in un “forse” che sboccia in un “niente”.
Voi che sembrate tanto importanti, che camminate sulla retta via
voi che vivete di compromessi, chiusi in un guscio d’ipocrisia,
vorrei andarmene dai vostri occhi,
vorrei andarmene prima che il vostro fango mi tocchi.
Amica fedele che pensi al domani,
tu che sai dare i giusti consigli
per trasformare in giorno la notte,
a cosa ti serve guardarti allo specchio
quando un solo pensiero di luce
ha reso il tuo uomo dieci anni più vecchio?
E tu non odiarmi per i miei sentimenti,
dal marciapiede della tua indulgenza
all’altare di una sconfitta celata, lo sai
non sono stato mai un buon burattino.
Ma dimmi perché quel mattino di maggio,
vestita da sposa e tra sordi rintocchi,
non mi hai detto “ti prego, parlami ancora
di quella ragazza con l’abito lungo e il mare negli occhi!”
Quattro stagioni e mille sentieri, tra valli e boschi chiusi dal vento,
bagliori di fuochi come coralli danzano sparsi verso ponente,
ed io cammino la mia sola vita,
la mia lunga strada, tra maschere spente.



9 FEBBRAIO, UN GIORNO (Ugo – febbraio 1972)


Culmina in questo brano la tragedia di un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, in cui un lavoratore qualsiasi muore per un incidente sul lavoro qualsiasi. In una “normale” giornata lavorativa di stress e di affanni che tutti quotidianamente viviamo, succedono “normali” incidenti sul lavoro. Capitava nel 1972, capita oggi. Le cose non sono cambiate ed il brano è attualissimo. Nella società dei consumi, pare tutto fosse / sia normale e soprattutto qualsiasi. Le tragedie accadono senza che il mondo consapevolmente se ne accorga. Siamo solo cellule di una società tutta programmata e l’individuo che va perduto nell’ingranaggio verrà subito sostituito da un nuovo elemento, altrettanto ignoto e qualsiasi, ma nuovo ed efficiente.


Il mattino della città, le luci pallide, opache, stanche.
Sull’asfalto le illusioni. Nella mente e in cielo, nuvole bianche.
Il giorno è sempre uguale,
le cose solite e la vita amara.
Lo sguardo vede la fatica in strada
farsi impossibile, ingrata, avara!
L’ansia è già desta, il tempo troppo breve.
La noia avvolge questo mondo strano
di un torpore solenne e greve,
poi, di colpo, tutto è lontano…
Tutto è finito, è notte ma è giorno,
la pace, il respiro, la quiete, il sole.
Non più cemento, solo verde intorno.
Solo verde, intorno…
E poi sguardi amici, storie che hai vissuto tu.
Rivedi lei, che non credevi di trovare più.
La notte dura poco, ma non ti sveglierai.
Il presente è già ieri. Domani non verrà mai.



LA MORTE E LA FANCIULLA 

(Max – aprile/maggio 1972)


In questo brano si mescolano la realtà e la fantasia, la storia di cronaca diventa leggenda,i personaggi appartengono ad un mondo irreale quasi evanescente nella sua suggestiva descrizione. Il brano canta quindi, in chiave fiabesca
(una allegoria medievale) una storia di una giovane ragazza sedicenne e del suo “cavaliere – principe azzurro”, storia che si consuma nell’arco di un tramonto. La ragazza, nel mondo reale, fu violentata e uccisa, poi lasciata su di un prato di periferia da un maniaco assassino.Il ragazzo nel frattempo, ignaro della sorte di lei, la sta aspettando per trascorrere con lei la serata. Questo brano lo abbiamo scelto per chiudere il CD perché ci sembra sia forse il più
rappresentativo della sensibilità degli autori, nonché emblema della quasi carismatica bravura e capacità del chitarrista Enrico ad entrare immediatamente nello spirito della canzone, pur non avendo partecipato alla stesura originale all’epoca. In questo brano, Enrico sa creare un fraseggio protagonista tutto suo, con una immediata empatia e dolcezza che paiono incredibili. Ai tempi ci furono altri gruppi a contemplare, in diversi brani, episodi di violenza e di morte (esempio calzante furono Le Orme con “Morte di un fiore”, altro brano nel quale una ragazza veniva anch’essa trovata uccisa in un prato) e l’argomento è purtroppo quanto mai ancora attuale, ma vorremmo focalizzare l’attenzione sul fatto che il testo fu scritto, all’epoca, da un ragazzo di appena 17 anni…



Come ogni giorno, al calare del sole
scende il silenzio sui campi di viole.
Il tempo confonde passato e avvenire,
scioglie i suoi veli sull’imbrunire.
Volan pensieri nel bosco incantato,
cercando il futuro, velando il passato,
le ombre trascinano, sempre più scure,
terrori nascosti, lontane paure.
Verso il castello, sul finire del giorno,
lenta la Morte sta facendo ritorno,
e dalla carrozza che nessuno ha fermato
vede la vita fiorire su un prato.
Il Nero Signore protende lo scettro,
e di colpo gli steli diventan di vetro,
scosta il mantello e la fanciulla
vi vede riflessi i colori del nulla.
La giovane stanca, ma senza pensiero,
rivive i momenti di un amore sincero,
mentre i suoi occhi, verdi cristalli,
rifletton la luna sui lunghi capelli.
E tu che al tramonto stai li ad aspettare
lei che da te non potrà più tornare,
lei che ad una fonte ha lasciato coi panni
purezza ed orgoglio dei suoi sedici anni.
Poi viene l’inverno e cade la neve,
ma la tristezza si fa sempre più greve,
sfoca la luce, si spegne il colore
poi l’alba riaccende il tuo bisogno d’amore.
E poi primavera, e notti di luna
che non puoi dividere più con nessuna,
dal giorno che un fiore appena sbocciato,
regalava i suoi anni al verde di un prato.



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